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Numero 5(69)
Il prezzo della vittoria

    La guerra in Iraq non è ancora finita, ma nessuno ormai dubita che la resistenza delle truppe fedeli a Saddam Hussein sia ormai terminata, che il suo regime sia sparito, e che lo stesso dittattore sia morto, almeno come figura politica di peso, se addirittura non è morto per davvero. Fra un giorno o due i marines americani che attaccavano l’Iraq dal Sud si uniranno ai reparti armati dei curdi che si muovono dal Nord, e dopo il loro incontro sul Tigri, sul Piccolo Zab o sul Tabuc-Ciai, la fase militare dell’operazione mirata alla liberazione dell’Iraq sarà terminata anche formalmente.
    Le forze militari dell’alleanza ora possono provare un giustificato orgoglio. Gli eserciti degli USA e della Gran Bretagna hanno infatti portato a termine il compito che era stato loro affidato, mettendo in rotta l’avversario con perdite minime: secondo i dati ufficiali del Comando centrale, fino a lunedì 14 aprile le perdite delle forze alleate erano di 148 militari morti e qualche centinaio di feriti (le informazioni presentate si riferiscono solo agli americani: 399 persone).
    Inoltre, quattro persone sono considerate disperse, ma questo particolare risulta offuscato se la si mette accanto ad un’operazione di salvataggio eseguita splendidamente, e che ha portato alla liberazione dalla prigionia del soldato Jessica Lynch. Sono stati inoltre liberati altri sette soldati americani presi prigionieri dagli iracheni. “Il fuoco amico”, incidenti tecnici con vittime umane, macchine perdute e danneggiate non contano: a la guérre comme a la guérre: rispetto al numero totale di voli di combattimento, dei lanci, degli spari, dellei salve, ecc., gli errori commessi non sono stati poi così tanti.
    Ma sembra che ora sia giunto il momento giusto per fermarsi e pensare agli altri risultati delle ultime vicende irachene, che non c’entrano con la guerra.
    A parte l’abbattimento del regime di Saddam Hussein, gli alleati possono vantarsi di un solo successo cruciale e significativo: si sono impadroniti dei pozzi petroliferi che non erano stati bruciati dai reparti iracheni in ritirata, o perché non erano riusciti a farlo, o perché non avevano fatto in tempo. Quei pozzi poi che invece erano stati messi a fuoco sono già stati spenti. In questo modo gli enormi campi petroliferi, alcuni dei quali, sulla base di un contratto firmato con Saddam Hussein, venivano coltivati da aziende russe, hanno cambiato padrone: anche se gli Usa sostengono che questo petrolio appartiene al popolo dell’Iraq, ad estrarlo, pulirlo e raffinarlo saranno quasi sicuramente, d’ora in poi, le società statunitensi e britanniche.
    Altri obiettivi importanti di questa guerra non sono però ancora stati conseguiti. Anzitutto, in Iraq tuttora nessuno ha trovato le famigerate armi della distruzione di massa, o almeno qualche indizio che possa dimostrare che Saddam Hussein avesse attivamente cercato di munirsene dopo il 1991. Di diversi posti sospetti in cui potrebbero essere conservate tali armi, gli americani, a giudicare dalle loro dichiarazioni, ne hanno trovati ormai circa tremila, ma secondo gli esperti che sono riusciti a vederne alcuni, nonché secondo gli scienziati che fanno parte dell’ispezione internazionale dell’ONU, delle armi di distruzione di massa vere e proprie, in Iraq non ce ne sono. Pare che Saddam, fingendo di poter rispondere alla minaccia militare esterna con una carta vicente asimetrica, avesse bluffato, come fa qualsiasi dittatore che si rispetti, e non può essere rimproverato da nessuno per aver mentito. In questo modo, l’unica e la più importante giustificazione che potrebbe dare qualche legittimità alla guerra in Iraq, iniziata contrariamente alla volontà della maggior parte dei membri dell’ONU, non c’è, cosi’ come non c’era prima.
    Poi, gli amercani in Iraq sembrano dover subire lo stesso insuccesso strategico che avevano subìto in Afganistan: dei leader del regime odiato, degli uomini ricercati come criminali militari e politici non c’è alcuna traccia e per ora non pare che i militari americani siano in grado di trovarli. Agli alleati non resta che consolarsi con l’ipotesi che Saddam Hussein, i suoi figli e i loro collaboratori più stretti siano morti nei loro bunker durante i bombardamenti. Per ogni eventualità, gli americani si sono procurati dei campioni del DNA di Saddam Hussein, per sciogliere caso mai ogni dubbio. Ma può darsi che l’analisi possa servire. Già oggi si dice che l’ex dittatore con i suoi scagnozzi può nascondersi in diversi posti: dal sistema diramato di linee di rifornimento nello stesso Iraq a Damasco. Per quanto gli americani dicano di non aver bisogno di Saddam in persona, tutti capiscono che, qualora l’ ex-dittatore finisse sul banco degli imputati negli USA (cosi’ com’era stato promesso dalla Casa Bianca), la vittoria politica di Washington apparirebbe assai più importante. In assenza di Saddam, agli americani resta solo da divertirsi con la guerra alle sue raffigurazioni in pietra e in bronzo, su cui infieriscono davanti alle telecamere di tutto il mondo.
    Ma il problema principale che dovranno affrontare prossimamente i politici americani e britannici è quello di dover superare gli effetti negativi della campagna militare, breve ma assai distruttiva.
    L’economia dell’Iraq, già tutt’ altro che stabile in consguenza delle sanzioni pluriennali delle Nazioni Unite, nelle ultime tre settimane è letteralmente crollata. Le infrastrutture di Bassora, Negef, Nasiria, Baghdad, Tikrit, Kirkuk, Mossul e di altre grosse sittà site al nord e al sud dell’Iraq sono andate quasi completamente distrutte. L’assedio di quindici giorni a Bassora, condotto dalle truppe britanniche, secondo esperti internazionali indipendenti avrebbe comportato una specie di catastrofe umanitaria, provocata dalla mancanza di acqua potabile. Ci sono informazioni sulla diffusione delle malattie intestinali nella città, il che potrebbe comportare l’inizio di un’epidemia. La mancanza dell’acqua e dell’elettricità è sentita molto anche dagli abitanti della capitale, spinti da questi inconvenienti ad organizzare delle dimostrazioni antiamericane: secondo i loro partecipanti, l’amministrazione militare americana dovrebbe prestare mno attenzione al petrolio e pensare di più ai bisogni urgenti dei semplici abitanti di Baghdad.
    Anche se gli americani volessero ricostruire le infrastrutture urbane a Baghdad e in altre città, difficilmente riuscirebbero a farlo, a causa delle ruberie e delle violenze che hanno devastato il Paese. Rimasti in un batter d’occhio senza il pugno forte del potere dittatoriale, gli iracheni si sono precipitati a fare man bassa di tutto ciò che è mal custodito. Gli americani, venuti nel Paese per dare alla gente la libertà, osservavano con stupore come si trasforma il concetto di questo valore nelle menti e negli atti della popolazione locale. Così a Baghdad la maggior parte degli sciacalli è arrivato in centro provenendo dai quartieri poveri della periferia, con birocci e carretti. Portavano via dagli edifici saccheggiati tutto ciò che potevano: televisori, tappeti, frigoriferi, mobili. Sono stati sacheggiati non solo gli uffici pubblici, le residenze degli ex capi del partito ed i palazzi di Saddam Hussein, ma anche negozi, magazzini, ambasciate di Stati stranieri, ospedali, musei e biblioteche: insomma tutte le strutture nelle quali gli ospiti non invitati non sono stati accolti con le raffiche di mitra.
    I saccheggi e gli assassinii, a detta dei testimoni oculari, avevano un carettere selvaggio, barbarico. Ciò è stato particolarmente evidente nei confronti di monumenti storici e culturali, sacheggiati prevalentemente per una pura passione di distruzione. Così la collezione veramente unica di reperti della cultura mesopotamica del Museo Nazionale dell’Iraq, situato a Baghdad, è stata razziata all’80%. Gli impiegati del museo dicono che i rapinatori hanno fracassato e rovinato la maggior parte degli oggetti che non avevano potuto portare via. Anche la Biblioteca Nazionale ha subìto un trattamento uguale. Inizialmente, gli americani stavano a guardare quanto succedeva con indifferenza, ma poi il comando alleat ha ordinato di impedire le ruberie e lo sciacallaggio. Ma, se parliamo di Baghdad, cosa possono fare venti-trenta mila persone che non conoscono la lingua araba in una città sconosciuta con cinque milioni di abitanti? Nella migliore delle ipotesi, possono prendere sotto controllo alcune piazze e strade centrali. Ora le nuove autorità cercano di farsi soccorere dai vecchi agenti di polizia, ma questa attività si svolge lentamente: probabilmente, i poliziotti non hanno tempo per lavorare, finché a Baghdad e in altre città irachene rimane qualcuno da espropriare senza quasi senza alcuna fatica.
    A proposito, anche la situazione delle nuove autorità irachene è tutt’ altro che perfetta. Gli alleati cercano accuratamente di dimostrare che sono venuti in Iraq per aiutare la popolazione locale a mettere a punto una nuova vita democratica, e che non hanno intenzione di assumersi le responsabilità amministrative per molto tempo. Secondo stime ottimistiche, gli americani cederanno il potere agli iracheni già fra tre mesi. Ma per ora non è chiaro chi sarà a raccogliere questo potere. Ahmed Chalabi, creatura del Pentagono, leader del Congresso nazionale dell’Iraq, che ha capeggiato il gruppo degli esponenti dell’opposizione irachena, sbarcato qualche giorno fa da elicotteri militari al sud dell’Iraq, non è assolutamente una figura riconciliatrice che possa andare bene a tutti, come il suo “sosia” afgano, Hamid Karzai.
    Per ora non si capisce come pensa di farcela l’amministrazione americana con quel mare ribollente per l’ ecessiva libertà che sta straripando in Iraq. Gli attentati dei kamikaze che hanno già ammazzato qualche soldato dell’alleanza dimostrano che la vita degli occupanti nel Paese occupato difficilmente potrà essere tranquilla. Va ricordato che l’esercito iracheno di quattrocentomila uomini, che includeva decine di migliaia di soldati della famigerata guardia repubblicana irachene, non e’ emigrato dal Paese e non è sceso con Saddam nei sotteranei. I suoi soldati si sono sparsi fra i civili iracheni, fra gli sciacalli che sacheggiavano Baghdad e Mossul, tra i poliziotti che oggi pattugliano le strade della capitale insieme ai soldati della coalizione. Come si comporteranno questi uomini in futuro? Riusciranno gli americani, oltre a mettersi al sicuro, a ripristinare l’ ordine civile almeno nelle grosse città? Le risposte a queste domande faranno capire che effetto avrà per gli USA e per i loro alleati la vittoria militare sul regime di Saddam, e se essa non si tramuterà in una pesante sconfitta.

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