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Numero 1(81)
Saddam: un monito per tutti
I “Paesi paria” sono diventati più accomodanti


    L’avvenimento più importante che ha attirato sull’ Iraq l’attenzione dei mass media mondiali è stato il destino dell’ex dittatore irakeno Saddam Hussein, l’arresto del quale è stato solennemente annunciato nel dicembre del 2003. Una parte notevole del tempo successivo è stata dedicata agli alterchi che riguardavano il futuro status dell’ex dittatore e la sua processabilità. In fin dei conti gli americani hanno dichiarato Saddam prigioniero, ed hanno fatto capire di avere l’intenzione di denunciarlo davanti al proprio tribunale militare, il che ha suscitato notevole insoddisfazione nella èlite irakena, che programmava, tramite un processo clamoroso contro Hussein, di consolidare le proprie posizioni. E poi gli Usa di fatto rendono il loro prigioniero, agli occhi della folla araba, un martire musulmano giustiziato dagli “infedeli”. Questa immagine d’altronde si sta formando già da adesso, ed e’ composta da numerose comunicazioni sul rifiuto di Saddam di collaborare con i giudici istruttori americani. Una parte degli esperti ritiene che tale carattere del futuro tribunale sia dovuto alle preoccupazioni degli Usa che in un dibattimento giudiziario pubblico Saddam possa dire qualcosa di molto imbarazzante per diversi americani influenti. Non suscita dubbi solo la sentenza dell’eventuale tribunale: il governante irakeno di poco tempo fa non può contare su una condanna che sia inferiore alla pena capitale o, almeno all’ ergastolo.
    E poi non è detto che Saddam arrivi alla sentenza di morte: sono già venuti dei comunicati su di una forma estremamente trascurata di cancro che avrebbe l’ex dittatore, quindi, probabilmente, il procedimento giudiziario non avrà luogo, a causa della morte dell’imputato.
    Come ci si aspettava, l’imprigionamento di Saddam Hussein non ha avuto grande effetto sulla portata delle attività partigiane in Iraq, mentre l’Iraq rassomiglia sempre di più alla Cecenia: gli americani sono costretti addirittura a bombardare qualche quartiere di Baghdad ed a sparare contro manifestanti aggressivi, e i rappresentanti delle autorità locali non riescono a dominare i partigiani: gli ex funzionari del partito Baath e gli islamisti che arrivano da vari Paesi. L’analogia con la Cecenia è molto giustificata perché secondo alcune fonti i separatisti ceceni consulterebbero i loro “colleghi” irakeni per quanto riguarda le tecniche di condurre la guerra partigiana. Inoltre sempre più irakeni cominciano ad avere paura che gli Usa abbiano intenzione di occupare l’Iraq sul serio e a lungo. L’opinione che gli americani non intendono lasciare l’Iraq ha avuto la sua conferma dopo che il co-presidente dell’Interim Governing Council irakeno (IGC) Adnan Pachachi ha dichiarato la disponibilità a stringere un accordo per la presenza delle forze della coalizione anche dopo che il potere nel Paese sia formalmente dato in mano agli irakeni. Non hanno certamente aumentato il numero dei seguaci degli Usa né le purghe di massa dei quadri in cui sono stati licenziati 30.000 di soli funzionari di alto livello, né il fatto che i soldati periodicamente ammazzano gente pacifica scambiata erroneamente per terroristi.
    L’unica cosa che gli Usa per il momento possono mettere all’attivo è il successo delle negoziazioni per cancellare il debito estero dell’Iraq. La parte più difficile di questa serie di trattative tenute dall’ex Segretario di Stato americano J. Baker è stato il girone russo, perché a differenza degli altri Paesi, la Russia non è tanto ricca da perdonare dei debiti che sono abbastanza restituibili. In fin dei conti il Presidente Vladimir Putin si è dichiarato disponibile a cancellare due terzi dei debito irakeno però, questo gesto generoso è stato fatto con la riserva che la decisione debba essere confermata dal Club di Parigi, mentre i rappresentanti della stessa organizzazione parigina hanno rilevato che i negoziati in tal senso avranno senso solo dopo che sarà stato formato un Governo irakeno legittimo e riconosciuto a livello internazionale. Per ricambiare la cortesia il co-presidente dell’IGC Abdel Aziz al-Hakim ha dichiarato che l’Iraq sarà aperto a tutte le compagnie russe, ed ha anche proposto di discutere la possibilità di prorogare i contratti stipulati sotto Saddam. Non è del tutto chiaro però come questa dichiarazione può essere abbinata all’ ostinazione degli Usa a non voler permettere a nessuno di avvicinarsi al petrolio e al riassestamento dell’infrastruttura irakena.
    Occupandosi dell’Iraq gli americani però non hanno mandato nel dimenticatoio gli altri “Stati paria”, e la politica implacabile statunitense nei loro confronti ha dato qualche frutto: alla fine di dicembre il leader della Libia Muhammar Gheddafi ha dichiarato che il suo Paese rinuncia allo sviluppo delle armi di sterminio in massa, ed ammetterà ispettori stranieri a visitare gli impianti nucleari. D’altronde sembra che la Libia non abbia avuto un programma nucleare reale, almeno così ha dichiarato il dirigente della International Atomic Energy Agency (IAEA) Muhammed El-Baradei: secondo lui, la Libia non sarebbe mai riuscita ad arricchire l’uranio, il che diventa il primo passo nella produzione di una bomba atomica. Di seguito gli americani, che stavano per rallegrarsi della cedevolezza di Gheddafi, hanno deciso che la Libia sta cercando di vendere loro una cosa nulla, e finora non hanno abolito le sanzioni imposte ancora nel 1986. Ai primi di gennaio ha ceduto anche la Corea del Nord che sembrava irriducibile: probabilmente il dittatore al governo Kim Jong Il ha deciso di cedere sperando in aiuti economici. Il 2 gennaio la DPRK ha annunciato che permettera’ ad esperti americani di visitare i propri impianti nucleari a Yonben. La visita ha avuto luogo il 6 gennaio, dimostrando cosi’ la buona volontà di Pyongyang. Non è però del tutto chiaro quanto in là possa spingersi Kim Jong Il, tenendo conto del fatto che Usa, Giappone e Corea del Sud richiedono la liquidazione di tutti i programmi nucleari in assoluto. Può darsi che l’esempio della Libia e della DPRK sarà seguito anche dalla Siria, soprattutto dopo che il Presidente americano George Bush ha firmato la legge approvata dal Congresso che prevede l’ introduzione di sanzioni economiche e diplomatiche nei confronti della Siria.
    Anche l’Iran ha firmato un protocollo supplementare all’accordo di non proliferazione nucleare, cosa che gli veniva richiesto da molto tempo, anche se questa firma è stata accompagnata dalla tradizionale retorica antiamericana ed è stata piuttosto un modo per respingere le pretese americane. Gli Usa però hanno avanzato nuove richieste: rinunciare anche al programma nucleare ad uso pacifico, consegnare i sospettati di appartenere ad Al Qaeda e concedere la libertà di parola all’opposizione. In risposta il Presidente iraniano Zayed Mohammad Khatami ha dichiarato che se gli Usa sono interessati a migliorare i rapporti con l’Iran devono riconoscere a Teheran il diritto di costruire un proprio programma nucleare.
    Ma anche se l’Iran moderasse la sua posizione, cio’ non significherà una vittoria piena ed incondizionata sul terrorismo mondiale: il fallito attentato contro il leader pakistano Pervez Musharraf dimostra che gli islamisti stanno cercando di destabilizzare la situazione in Pakistan, Paese della “bomba nucleare islamica”. Comunicazioni di atti terroristici in preparazione, reali o immaginari, continuano a pervenire praticamente da tutte le parti del mondo, e anche la catastrofe del Boeing 747 francese crollato il 3 gennaio nel Mar Rosso è stata sfruttata dagli estremisti per farsi autopubblicità. La psicosi antiterroristica globale ha già fatto cancellare alla fine di dicembre sei voli della Air France tra Parigi e Los Angeles. Come poi è venuto fuori, gli esperti della FBI hanno scambiato sei cittadini per bene con altrettanti loro omonimi sospettati di attività terroristica, che fanno parte della lista composta dai servizi di sicurezza americani.
    D’altronde il terrorismo non è sempre islamico, lo hanno fatto ricordare all’Europa alcuni pacchi postali scoppiati nelle case e negli uffici di alti funzionari europei, compreso il Presidente della Commissione Europea Romano Prodi, a fine dicembre-inizio gennaio. In questo modo si è fatta viva la Federazione anarchica informale (FAI) italiana. Anche se alcuni funzionari dei servizi di sicurezza europei hanno valutato questi pacchi come azione dimostrativa dopo la quale non sarebbe seguito niente, i dirigenti UE hanno intrapreso misure di sicurezza straordinarie. I servizi di sicurezza delle istituzioni dell’Unione Europea hanno diffuso a tutti i dipendenti degli enti europei istruzioni in cui si spiega che aspetto hanno i plichi postali che potrebbero contenere un ordigno esplosivo.
    In più il servizio di sicurezza UE ha preso la decisione di accrescere la protezione personale del Presidente della Commissione Romano Prodi. È stato anche deciso di costituire una divisione ad hoc per la lotta contro gli anarchici.

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