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Numero 9(89)
Lontana la pace di Bush
Afganistan, Iraq... ora tocca al Sudan?


    In agosto, al centro del conflitto in Iraq è rimasto lo stesso luogo: la città di En-Najaf, sacra per gli sciiti, in cui si sono fortificati i sostenitori di Muktada as-Sadr, l’ambizioso leader sciita, riunitisi nell’“Esercito del Mahdi”.
    Le azioni di guerra si sono concentrate dopo un po’ di tempo attorno al mausoleo del quarto califfo Ali, situato nella città. I guerriglieri di as-Sadr e lui stesso, fortificatisi nel mausoleo, hanno dichiarato alcune volte la loro decisione di non arrendersi agli americani “infedeli” e ai loro “servitori” iracheni, anche a costo della morte. Da parte sua il premier iracheno Alawi ha mandato ai membri dell’”Esercito del Mahdi” un ultimatum con la richiesta di lasciare En-Najaf e di capitolare. Tuttavia le autorità irachene non osavano passare ai metodi violenti, perché il mausoleo di Ali è un luogo sacro per gli sciiti di tutto il mondo (un po’ come la chiesa del Santo Sepolcro del Signore per i cristiani), e la sua distruzione (inevitabile nel caso di un assalto con l’uso di carri armati e di artiglieria pesante, accompagnato da bombardamenti aerei) poteva provocare una sollevazione generale sciita al sud dell’Iraq ed una grave complicazione nei rapporti con l’Iran. Gli americani ad En-Najaf sono stati ostacolati anche dal Ministero degli esteri russo, il quale ha presentato con urgenza l’iniziativa di introdurre nel diritto internazionale una norma atta a vietare la distruzione di luoghi sacri nel corso di conflitti militari.
    Sono falliti i tentativi degli americani di scoraggiare i sostenitori di as-Sadr, facendo circolare voci circa il presunto scioglimento dell’“Esercito del Mahdi”, dietro ordine del suo fondatore.
    Va rilevato peraltro che ad essere maggiormente avvantaggiato dalla situazione venutasi a creare non è stato as-Sadr, ma l’ayatollah Ali al-Sistani che rappresenta i sacerdoti sciiti moderati. Avendo passato la maggior parte di agosto a Londra, per cure mediche, al-Sistani è tornato in patria proprio in tempo per dare il proprio contributo alla conclusione di una tregua che ha permesso a entrambe le parti del conflitto di non perdere la faccia. L’accordo, reso pubblico il 27 agosto, prevedeva il ritiro immediato di tutte le truppe straniere da En-Najaf; e contemporaneamente alla polizia irachena passava l’obbligo di garantire la sicurezza.
    I guerriglieri di as-Sadr, come lui stesso, sono riusciti a lasciare senza problemi An-Najaf, mentre gli americani e i loro alleati iracheni sono stati liberati dalla necessità di rispondere dell’eventuale profanazione e distruzione di uno dei più importanti luoghi sacri del mondo sciita. E mentre il futuro politico di as-Sadr è ora assai vago, Ali al-Sistani, che ha conquistato l’immagine del pacificatore, non dimenticando peraltro di ricordare che se le potenzialità delle trattative con gli “occupanti” saranno esaurite, la lotta armata diventerà possibile, potrebbe assai presto provare il manto di un “Khomeini iracheno”, anche perché gli sciiti iracheni costituiscono la parte maggiore della popolazione irachena: il 60%.
    Il cambiamento della situazione politica nel Paese è stato sentito assai di più dai cristiani iracheni che sono circa 800.000. Ai tempi di Saddam Hussein l’Iraq era un Paese secolare, mentre adesso la piazza è influenzata sempre di più da islamici radicali. I cristiani sono visti come alleati dell’Occidente, nemici dell’Iraq e dell’islam. Gli estremisti attaccano spesso le case ed i negozi dei cristiani. Sono specialmente discriminate le donne cristiane che girano per strada senza scialli musulmani e subiscono derisioni e minacce. Molti ospedali rifiutano di curare le donne che non portano il hijab.
    E dopo che l’islam era stato definito dalla Costituzione provvisoria dell’Iraq “la religione ufficiale dello Stato” l’infuriare del terrore aveva acquisito dimensioni inedite, è iniziata l’emigrazione di massa dei cristiani. Solo negli ultimi quindici giorni, dall’Iraq sono andati via oltre 40 mila cristiani.
    I combattimenti peraltro non hanno toccato solo En-Najaf. Gli aerei americani hanno bombardato regolarmente Falluja. In un altro centro sciita, Kufa, è stata presa a fucilate una manifestazione dei sostenitori di al-Sistani e di as-Sadr. Non c’è calma anche nella capitale irachena, Baghdad. La fonte principale di disordini nella città è il quartiere di Sadr-City, popolato da quasi 2 milioni di sciiti, seguaci di Muktada as-Sadr. Ma la calma manca anche nella cosiddetta “zona verde”, uno spiazzo sorvegliatissimo nel centro di Baghdad, in cui sono accumulati gli edifici governativi. Poco tempo fa gli islamici sono riusciti addirittura a bombardare con i mortai l’ambasciata americana, la quale occupa adesso un ex palazzo di Saddam. Continuano i combattimenti anche nei pressi di Bassora, il capolougo dell’Iraq meridionale, vicino alla quale passa una pipeline strategica che trasporta il petrolio iracheno verso i porti marittimi di Umm el-Kasr e Fao. Far esplodere questa pipeline sembra ormai diventare in Iraq una specie di sport nazionale. Ogni esplosione del genere, come quella della pipeline del Nord che va da Kirkuk al Mare Mediterraneo, fa aumentare il costo di un barile di petrolio sul mercato internazionale: alla fine di agosto ha raggiunto, infatti, 50 dollari. Un altro “sport nazionale” dell’Iraq è la cattura di ostaggi. A parte gli americani, l’elenco delle persone che sono state catturate e possono essere ammazzate dagli estremisti islamici locali se non saranno ritirati i loro compatrioti soldati od esperti civili, è costituito da turchi, egiziani, italiani, francesi e addirittura da nepalesi.
    In tale scenario è rimasta quasi inosservata l’elezione del nuovo Consiglio provvisorio nazionale iracheno da parte dei delegati che sono arrivati a Baghdad da tutto l’Iraq. Ciò peraltro è evidente: nessuno, eccetto gli ottimisti incalliti, può garantire che il potere di quest’organismo sia riconosciuto da qualche parte fuori della “zona verde”.
    In contemporanea si è inasprita di nuovo la situazione in Afganistan, dove sono tornati a fare la guerra i sostenitori del movimento dei “Talebani”, quasi eliminato dagli americani nel 2002. La situazione non è migliorata anche se il comando è stato demandato dalla NATO al Corpo europeo di reazione rapida, creato appositamente. Hamid Karzai, il Presidente proamericano del Paese, continua a controllare solo Kabul e i suoi dintorni. Anche questo territorio peraltro non è controllato completamente da Karzai. Il 29 agosto, sono state uccise almeno sette persone (compresi gli istruttori americani), in seguito ad una forte esplosione in centro di Kabul. I talebani hanno rivendicato l’organizzazione dell’attentato. In precedenza, i talebani attaccavano i campi militari, le auto dell’ONU, mettevano mine nelle scuole.
    Intanto, nell’ambito della pacificazione dell’Afganistan, gli USA hanno dato un credito militare speciale alle autorità dell’Uzbekistan, per dare un contributo alla lotta contro gli islamici radicali locali, che ottengono tutto il necessario dai “colleghi” afgani. Tale finanziamento è tanto più conveniente che alla fine di luglio, a Taskent, sotto le ambasciate degli USA e di Israele, sono rimbombate due esplosioni operate da terroristi kamikaze.
    Senza aver sciolto i nodi dell’Iraq e dell’Afaganistan, gli USA peraltro si sono già resi disponibili a farsi coinvolgere in un altro conflitto. Si tratta della situazione nella provincia sudanese del Darfur, in cui le autorità, per mezzo di milizie irregolari, hanno combattuto con i ribelli, sfrattando od eliminando la popolazione civile per non lasciare basi all’avversario. In un anno, in seguito agli scontri in Darfur, più di 1 milione di persone hanno dovuto abbandonare i luoghi di residenza. I morti sono 30 mila. Gli USA hanno dichiarato ripetutamente di valutare quanto succede in Darfur come un genocidio. L’UE e gli USA hanno già avvisato il Sudan che avrebbero applicato sanzioni economiche, qualora le autorità di questo Paese non avessero realizzato misure atte a far cessare la violenza. La Gran Bretagna e l’Australia si riservano la possibilità di mandare truppe in Sudan. Il 30 luglio, il Consiglio di sicurezza dell’ONU ha approvato una risoluzione che concede all’ONU il diritto di ingerenza militare in Sudan, qualora Khartum non disarmi i reparti di guerriglieri arabi. Il Governo sudanese ha dichiarato peraltro la sua disponibilità ad entrare in trattativa con i ribelli, presentando però una condizione preliminare: lo scioglimento degli eserciti insorti. Naturalmente, i ribelli non vogliono farlo, e le autorità sudanesi ne traggono un motivo per svolgere una campagna propagandistica.

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