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Numero 11(91)
Il diritto ad avere un hobby

    Presso la Casa della fotografia di Mosca viene presenta la collezione della banca DZ. Negli ultimi dieci anni la prestigiosa società tedesca si è concessa una debolezza che più si addice alle persone che agli enti, soprattutto a quelli così seri come un istituto di credito: ha coltivato un hobby.
    Il “settore arte”, creato appositamente dalla banca, si è attivamente impegnato nella raccolta e nella collezione di foto moderne. Ciò non rappresenta qualcosa di inedito per l’establishment dell’impresa internazionale: basti pensare all’estratto della collezione della Deutsche Bank presentato al Museo delle collezioni private poco prima della mostra inaugurata presso la Casa della Foto; si trattava allora di una specie di digest dell’arte tedesca del Novecento. Entrambe le iniziative fanno parte di un vasto programma in fase di conclusione, “I giorni della Germania in Russia”.
    Ma per la Russia, una collezione corporativa non è qualcosa di abituale: iniziative di questo tipo qui non sono ancora diffuse. Da noi, chi colleziona opere d’arte sono i privati, e non le società, e soprattuto senza senza cercare di promuovere socialmente i beni culturali, assecondando solo le ambizioni personali che sono proprie dei collezionisti. Anche se fin dai primi anni ‘90 molte grandi compagnie hanno cercato di far annoverare i beni culturali tra i simboli del benessere -accanto alle auto costose e agli uffici di lusso- la maggior parte delle iniziative di questo tipo sono naufragate. L’instabilità delle stesse strutture economico-imprenditoriali del Paese non ha permesso alle collezioni (rapidamente create) di una “Incombank”, di una “Stolichnyj” o di altre di diventare esempio di passione da collezionismo corporativo. Durante lo smantellamento della collezione della “Incombank” solo “Il quadrato nero” di Malevich è stato venduto ad un giusto prezzo, mentre tutti gli altri pezzi sono praticamente spariti, venduti all’asta a prezzi ridicoli. La sorte della collezione della banca Stolichnyj si perde nell’oscurità. E l’elenco delle analoghe, tristi storie è lungo. Per questo motivo, le mostre delle grosse banche tedesche aprono un magico spiraglio su un tipo di realtà diverso, in cui le banche non falliscono così spesso, e le collezioni da esse raccolte vengono presentate con orgoglio a tutto il mondo.
    La banca DZ ha veramente qualcosa da mostrare. Certo, èazzardato fare confronti con la collezione delle fotografie del Museo dell’arte moderna di New York, ma per un hobby di dieci anni è una raccolta discreta. La scelta degli autori delle fotografie dimostra come il curatore della collezione, Luminita Sabau, abbia cercato di orientarsi verso i grandi nomi, come Kristian Boltanski, Tomas Ruff, Robert Mapplethorp, Nobuesi Araki. Oltre alle opere dei fotografi professionisti sono presenti anche le creazioni di “stelle”- dilettanti, come Andy Warhol e Robert Rauschenberg. Le opere fotografiche dei padri della “pop-art” hanno una sola qualità: la firma. E d’altra parte, fra le foto firmate dai nomi meno noti, è possibile trovare opere veramente splendide, l’alta qualità delle quali non dipende dal nome dell’autore.
    Così, si fanno notare le foto in bianco e nero degli incidenti automobilistici, fatte, per dovere d’ufficio, da Arnold Odermatt. Ha lavorato come fotografo per la polizia, e queste foto impersonali facevano parte del suo lavoro; ciononostante esse attraggono lo spettatore con la loro strana bellezza (tenendo conto delle circostanze). Curioso anche l’inspiegabile mistero della foto scattata da Beata Gutschov: un semplice paesaggio cattura lo sguardo e chiede una risposta alla domanda: cosa c’è che non va? Solo grazie alle spiegazioni degli organizzatori della mostra si arriva alla soluzione del quesito: il paesaggio è costruito da diverse fotografie.
    Ci sono delle opere meno misteriose, ma altrettanto ironiche, come, ad esempio, i quadri dell’ozio assurdo dei burger, quasi copiati dalle riviste: una serie di foto di Lars Tunbjork. E il pubblico esigente, amante delle manifestazioni di estetismo formale dovrebbe apprezzare il minimalismo dei panorami marini di Hiroshi Sugimoto, oppure il corridoio deserto di un ospedale con il ritmo monotono di lampadine rosse e porte uguali fotografato da Jason Oddy. Sottofondo sociale postmoderno è dato da una serie di palazzi pubblici vuoti, raffigurati da Candida Hoefer.
    Boris Grois, autore dell’introduzione del catalogo della mostra, assicura che “il passaggio dalla pittura alla fotografia può essere stimato come l’evento artistico più importante del XX secolo”. Quest’affermazione assai discutibile va presa senz’altro come nota soggettiva dell’autore, ma non sminuisce la qualità della mostra. Il titolo dell’esposizione, a proposito, è assai strano: “La promessa della fotografia” (altre sofisticazioni dei curatori). Ed è aperta fino al 18 gennaio del nuovo anno che si avvicina inesorabile, in via Ostozhenka, 18.

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