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Numero 3(94)
Due incontri e una lezione per tutta la vita

    Era marzo del 1998, quando mi chiamò Irina Ilovaiskaia, la quale, per disgrazia, sarebbe poi deceduta così improvvisamente, e mi disse: “Fra un mese il Papa l’aspetta per una cena”.
    Sapevo che esisteva un rapporto di amicizia e di fiducia tra il Papa e la direttrice responsabile del giornale “Russkaja mysl”, ma per me era difficile credere che ciò che mi aveva detto fosse vero. Dentro di me sentivo risuonare in modo assai netto queste parole: il Pontefice avrà altre cose da fare nella vita a parte che incontrare la direttrice della Biblioteca di letterature straniere. Non pensavo certamente che si trattasse di una mistificazione, ma, a dire il vero, non potevo escludere che l’incontro dovesse essere rinviato per dare spazio ai tanti impegni del Papa, assai più importanti.
    Ed ecco che arriva il 15 aprile. Sono a Roma. Per le 19.00 è fissata la cena. Non posso dire di essere agitata. Provo un’altra emozione, che fino a quel momento mi era sconosciuta. Salendo verso gli appartamenti del Papa non sento un fremito per l’imminenza di un evento di importanza storica: mi si presenta l’immagine di un sacerdote di Cracovia, bello e snello, che avevo visto una volta, durante una gita scolastica all’estero, mentre negli orecchi risuona, potente e sicura, la sua voce.
    Nella sala stava un vecchio curvo. Un cardinale che ci aiutava nel corso della conversazione, pareva, in confronto a lui, un Gulliver vero e proprio. Sembrava che per qualche istante il vecchio vestito di bianco si assopisse, ma non era così, a giudicare dalle domande che rivolgeva a me e ad Irina Alberti. Era interessante, il modo in cui si svolgeva quella comunicazione: io parlavo in inglese, il cardinale mi traduceva in italiano, il Papa gli rispondeva in italiano, e il cardinale mi trasmetteva in inglese il senso delle parole del Pontefice.
    Per tutta la sera mi tormentò una domanda: perché mi aveva invitata? Forse, in seguito ad una sollecitazione da parte della mia cara amica Irina Alberti, o forse perché ero figlia spirituale di padre Aleksandr Men, che era venerato dal Papa come un Santo. Parlammo di diverse cose. Quella sera mi venne presentata la proposta, espressa in modo molto gentile e delicato, di pubblicare per la prima volta in russo la Catechesi della Chiesa Cattolica romana. “Può anche non mettere il nome della casa editrice, per non trovarsi in una situazione imbarazzante nel suo Paese”. Per me la risposta poteva essere una sola: “è un grande onore per noi”.
    Da allora la Biblioteca nazionale delle letterature straniere ha pubblicato, presso la casa editrice “Rudomino”, “Amore e responsabilità”, un’opera di Karol Wojtyla, il giovane sacerdote di Cracovia, il futuro Papa, e ha diffuso per migliaia di biblioteche della Russia l’“Enciclopedia cattolica”.
    Molta acqua è passata da allora sotto i ponti: il sogno del Papa di inginocchiarsi alle isole Solovki non si realizzerà mai più. Appare come un miracolo il ritorno dell’icona della Santa Madre di Kazan in Russia; un dolore che brucia è il mancato arrivo del Pontefice in Russia.
    Un anno dopo ricevetti un altro invito a cena. “Lei porta sempre da me persone così interessanti”, mi salutò con queste parole il Papa, suscitando in me un senso di imbarazzo.
    Verso la fine della cena, avendo ottenuto in regalo un orologio che conservo con cura e della cui storia parlerò un giorno a mio nipote Daniil, mi decisi a chiedergli: “Santità, Lei mi invita ormai per la seconda volta perché sono figlia spirituale di padre Aleksandr Men?”. Lui disse piano qualcosa al Cardinale, il quale si alzò di scatto e uscì, per tornare subito dopo tenendo in mano il catalogo dei libri tedeschi del Seicento appartenenti alla Biblioteca di letterature straniere di Mosca, cioè di quei libri che erano capitati a noi nel dopoguerra, come oggetti di restituzione. “Ma in che modo questo catalogo è arrivato a voi?”. La mia domanda era assolutamente inopportuna e poco professionale. “La biblioteca del Vaticano non ha problemi di formazione e assortimento”. Affrettandomi a correggere il mio errore, chiesi: “Ma quest’argomento la interessa perché Lei è uno slavo?”. “Non proprio. Il fatto è che con tali pubblicazioni voi contribuite alla fine della guerra, la quale in realtà continua fin quando i libri rimangono imprigionati, mentre la rispettiva pallottola non è d’argento e quindi non colpisce gli spiriti immondi, ma continua a volare e colpire i cuori”.
    Nella mia famiglia è stata sempre tenuta in grande considerazione la festa della Domenica del Perdono. Ricordo fin da piccola come mia nonna (di origine nobile, una dama d’onore di sua maestà l’imperatrice che aveva evitato miracolosamente il Gulag sovietico) si inginocchiava davanti alla mia balia e le chiedeva il perdono. Io invece ho avuto bisogno di diversi anni, da adulta, per vincere l’orgoglio e dire, soprattutto ai miei cari, “perdonami”. Non so quante notti in bianco abbia passato e quante preghiere abbia detto Giovanni Paolo II, prima di decidersi a chiedere perdono davanti a tutto il mondo, sul monte Tabor, per tutti gli errori - spesso tragici - commessi dalla Chiesa Cattolica. In tal modo ci ha dato una lezione sul modo in cui si debba porre fine a tutte le guerre. Qualcuno deve dire per primo: “Perdonami”.

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